Il racconto “Pinguino” di Fake-News
Dopo “Ahia!” uscito nel del 2020 e tre singoli che hanno anticipato il disco, la band bergamasca capitanata da frontman Riccardo Zanotti torna con un nuovo capitolo della storia.
Fake News è un piacevolissimo fermo immagine del presente, un album “vero” che ha come obiettivo dichiarato quello di rimanere nel tempo.
Il titolo di questo nuovo progetto suona quasi come un ossimoro rispetto ai temi trattati nei brani, un modo per accendere i riflettori e riflettere su tutte quelle false notizie che condiscono e a volte condizionano le nostre giornate.
Il racconto Pinguino di “Fake News”
“Zen” è l’opening track dell’album. Diamo moltissima importanza alle canzoni con cui si aprono i nostri dischi: l’inizio è sempre uno statement. In questo caso la canzone si apre con un coro che assolve il ruolo del coro della tragedia greca: non si tratta di persone che cantano insieme, ma di un personaggio collettivo con cui sto dialogando che rappresenta la mia coscienza e che mi intima di stare calmo. Io spesso tendo ad avere paura del futuro, delle sfide, della vita, anche di questo stesso album. “Zen” è quasi un rito scaramantico. L’arrangiamento tende all’urban, in certi punti quasi al rap: nasce da un beat che si ispira a Travis Scott. Siamo voluti uscire dalla nostra comfort zone. È una canzone estremamente autoreferenziale, perché mi ricorda di calmarmi e di dimenticarmi del mio mestiere.
“L’ultima volta” è una canzone smaccatamente pop, come lo è il tema che viene trattato: la questione atavica di fare qualcosa per l’ultima volta nella nostra vita senza rendercene conto. L’ultimo Happy Meal, l’ultimo bacio, l’ultima volta che parliamo a una persona cara che poi ci lascia. Abbiamo fatto dieci versioni diverse, siamo passati dal funk al rock, arrivando alla fine a un bel connubio tra funk e EDM, un genere che ci piace tantissimo. Le influenze sono David Guetta, Avicii e sicuramente anche Bruno Mars, che in passato ha fatto spesso di questo connubio una cifra stilistica. È una canzone in cui si balla, ci piace anche questa idea che ai concerti la gente possa scatenarsi in ogni modo possibile: facendo headbanging, piangendo, sorridendo, cantando.
Già dal titolo di “Hold on” si evince che utilizziamo molto in questo album la commistione tra inglese e italiano. Lo facciamo perché siamo cittadini del mondo, ci piace mescolare culture diverse. L’utilizzo di italiano e inglese è dovuto al fatto che spesso, nel mondo lavorativo, si ha questa attitudine. È una cosa molto milanese, se ci si pensa bene: fare un meeting, una call, essere smart e via dicendo. “Hold on” parla proprio di come sia difficile stare accanto a una persona che, soprattutto a livello lavorativo, ma anche sociale, umano e relazionale non sta bene. L’arrangiamento è una power ballad, molto classica, ed è pensata per essere ascoltata la mattina, quando si fa il cosiddetto commuting casa-lavoro. Una canzone, per tirare avanti, per tenere duro. Lo scopo ultimo della musica dovrebbe essere questo: dare conforto a persone che stanno vivendo un periodo difficile.
“Stage Diving” è un invito esplicito a buttarsi, sia metaforicamente sia letteralmente: buttarsi nella vita, superare la propria timidezza. La musica ci dà quel pizzico di coraggio che ci manca nella vita. Nella mia testa immagino questo pezzo che parte a San Siro o all’Olimpico di Roma, perché questa canzone è dedicata a Roma, una città meravigliosa. Immagino di prendere la rincorsa e “lanciarmi” sul mio pubblico, sul nostro pubblico. L’acme della canzone si raggiunge quando si descrive con minuziosi dettagli cosa significhi fare stage diving sulla folla. Una cosa che faccio spessissimo ai concerti. Un’emozione indescrivibile, il momento più alto di connubio con il pubblico che si possa avere, ma perché sai bene che c’è qualcuno che ti prenderà, una cieca fiducia che ti impedisce di cadere. O che impedisce al pubblico di lasciarti precipitare. Ed è la bellezza di un concerto, ma anche la bellezza della nostra storia. Ci siamo sempre sentiti così, ed è anni che non veniamo lasciati cadere, quindi è fantastico.
“Ricordi” è una canzone semplice ed estremamente diretta. Lo si evince già dal titolo, la parola ricordi ha un significato unilaterale, i ricordi sono quello che ci portiamo dietro dal passato: l’esperienza, la malinconia. In certi casi però sì, è semplice, ma dall’altra parte anche ambigua, volutamente ambigua, perché può riferirsi come canzone sia a una storia d’amore finita – in cui si rivivono i ricordi con nostalgia – sia, se si analizza meglio il testo, a una storia molto più mesta, più truce, che riguarda una malattia terribile come l’Alzheimer. L’utilizzo della parola Aducanumab, che è il farmaco che si utilizza da pochissimo tempo in questi tipi di patologie – o meglio lo utilizzano in alcune parti del mondo – è un punto pivotale, cioè è il punto in cui si dovrebbe capire di cosa parla realmente la canzone. Qualcuno lo passa senza farsi neanche troppe domande, qualcun altro invece, non capendo la parola, va a cercarsela. Abbiamo constatato su Google Trend che le ricerche per questa parola sono aumentate sensibilmente dopo che abbiamo pubblicato la canzone.
“Melting pop” è una delle canzoni più cosmopolite che abbiamo mai scritto, che potrebbe anche risultare kitsch per qualcuno. Però non è un kitsch mellifluo, finto, che cade nel trash. È un kitsch più simile a quello che facevano i Queen in certe loro produzioni, perché il suono che ne deriva è contaminato da mille influenze diverse. Per esempio c’è la cassa in quattro, tipica della musica pop occidentale, ma anche un ampio utilizzo del sitar, strumento indiano famosissimo. Da una parte c’è un assolo di sax di matrice jazz, dall’altra parte invece l’utilizzo di fiati, di strumenti a fiato giapponesi che poche volte nella storia hanno convissuto con il suono di un sax. Ci è piaciuto molto fare questo arrangiamento dal profumo di globalizzazione. La città dove ha luogo Melting Pop è Milano, ovvero la città più cosmopolita d’Italia, che noi viviamo spesso per lavoro. Abbiamo voluto portare Milano in musica e il risultato è Melting Pop.
“Forse” nasce dall’amore che nutriamo nei confronti di un’invenzione incredibile, Il codice Morse è la sintesi perfetta fra ritmo (successione più o meno veloce di un suono con significati diversi a seconda delle lettere che questi suoni rappresentano), musica (il suono di una nota che viene ripetuto costantemente) e decrittazione. È quasi come fosse un gioco in cui dobbiamo capire quali sono le lettere a cui questi suoni si riferiscono. Tutta la comunicazione – dalla parola, al codice, all’arte, al disegno, anche alla musica – deve essere in qualche modo gioco, perché se non ci fosse l’intrigo del gioco, nessuno avrebbe voglia di comunicare. Forse e Morse hanno una sola lettera di differenza eppure vogliono dire cose completamente diverse. Da una parte Morse, il codice rigoroso, sintetico, quasi matematico; dall’altra parte Forse, che è una delle parole invece più dubbie, quello che dicono i genitori e i bambini quando non vogliono dire no, ma vogliono anche lasciare aperta l’opzione del sì aleatorio. “Forse” è una canzone che inizialmente uscirà solo sulla versione fisica, come fosse una ghost track, per un primo momento non sarà disponibile sulle piattaforme digitali.
“Fede” nasce da questo pensiero: è molto difficile credere in un Dio quando tutto va male, nello sconforto, nel dolore. Però è altrettanto difficile non credere in Dio quando tutto va tutto per il verso giusto… e noi lo sappiamo bene, perché non siamo credenti ma è una vita intera che le cose ci stanno andando “da Dio” (perdonatemi, ma dovevo dirlo!). Nella canzone ci interroghiamo su cosa significhi la fede in ambiti diversi: la fede nella scienza, la fede nell’uomo, la fede nelle emozioni, la fede nelle istituzioni. Abbiamo cercato di trovare un equilibrio fra tutte queste possibili fedi: è la canzone del disco che suggella lo stretto legame che c’è fra musica e religione. Per noi la religione significa da sempre, fin da quando eravamo bambini, dubbio. “Fede” suona rock in modo puro e crudo ed è la canzone con meno tracce, proprio perché voleva essere diretta, ma non minimale, come dovrebbe essere la fede, senza ribattimenti o supposizioni. La fede c’è o non c’è e il rock’n’roll ci sembra la stessa cosa, non accetta compromessi.
“Dentista Croazia” è una canzone autobiografica che racconta l’amore spassionato che spesso intercorre fra una band e il proprio mezzo di trasporto che, nel nostro caso, era un furgoncino che aveva sulla fiancata la scritta Dentista Croazia. Ci veniva concesso durante i weekend da una cooperativa che portava gli anziani a fare operazioni odontoiatriche in Croazia. Spesso la gente pensa che la vita del musicista e da rockstar consista nel suonare, stare in studio, fare serata, divertirsi. Ma la realtà dei fatti è che anche in un paese piccolo come l’Italia, la maggior parte della giornata di un musicista si svolge all’interno di un mezzo di trasporto, proprio come è successo e continua a succedere a noi. Il brano è una power ballad dove le chitarre fanno da padrone. Simboleggia i nostri inizi, quando non c’erano tanti sintetizzatori, tastiere, pedaliere e sound effects. Nel racconto dei viaggi in furgone, è racchiuso quello della nostra crescita a livello artistico, lavorativo, ma anche personale.. Stiamo cercando di ritrovare quel furgone, cimelio dall’enorme valore simbolico, ma non sappiamo dove sia.
“Hikikomori” è una canzone che tratta un tema centrale nella nostra produzione degli ultimi anni, ovvero quello della solitudine. Cosa sono gli hikikomori? È un fenomeno che vede protagonisti soprattutto dagli adolescenti originariamente giapponesi, ma poi, si è sparso in tutto il mondo. Fondamentalmente questi ragazzi, perché sono prevalentemente maschi, decidono di rintanarsi nella loro stanza e di non mostrarsi più ai loro amici e ai loro conoscenti e di vivere confinati dentro quattro mura, giocando ai videogames, guardando film, mangiando quello che gli si porta, talvolta arrivando a denutrirsi. È un fenomeno molto problematico che ormai, partendo dal Giappone, ha raggiunto tutti. È una metafora molto forte e siamo consapevoli delle enormi differenze, però anche noi durante la pandemia ci siamo sentiti sconfortati, distrutti e chiusi in quattro mura: dopo Sanremo doveva iniziare il nostro tour, che abbiamo dovuto rimandare di due anni. “Hikikomori”, è dedicata a tutti coloro che in quel periodo, o in generale nella vita, si sono sentiti e si sentono sconfortati, e si abbandonano alla solitudine.
Non è mai semplice parlare delle proprie canzoni. Tuttavia, nel caso di “Giovani Wannabe” mi viene particolarmente facile. Perché la prima canzone estiva che abbiamo mai scritto ed è una canzone che per noi pinguini tattici nucleari ha significato ripartenza, rinascita, in qualche modo, dato che proprio nell’estate del 2022 siamo tornati a suonare dal vivo. “Giovani Wannabe” è una canzone positiva, di speranza che ha degli orizzonti sconfinati. Il suono di sintetizzatore iniziale ha una precisione quasi clinica, plastica, perché vuole aprirsi in modo sicuro verso il futuro. Non a caso è una canzone molto quadrata e diretta nella sua semplicità e immediatezza. Parla della ricerca spasmodica della felicità nell’avvenire, nel futuro, nei giorni che ancora non ci sono. In sintesi parla del cercare il proprio posto nel mondo. Calvino diceva che alle volte ci si sente incompleti e in realtà si è solo giovani, e forse è proprio così.
“Barfly” è la primissima canzone che ho scritto per “Fake News”, il titolo è un riferimento a un famoso pub che sorgeva a Chalk Farm a Londra, in cui hanno suonato tutti i più grandi, dai Coldplay agli U2 e via dicendo. Ho passato quasi cinque anni della mia vita nella perfida Albione e più precisamente a Londra, e sono coincisi con i miei primi anni di lavoro in una caffetteria e i tre anni dell’università. “Barfly”, narra di quei tempi andati che però per me sono stati un misto di felicità e tristezza, di allegria e di malinconia. Dovevo mantenermi da solo e spesso arrivavo alla fine del mese con pochi spiccioli o in rosso. Da una parte ero fuggito dall’Italia cercando un futuro migliore, ma dall’altra mi rendevo conto via via che il mio presente del tempo non coincideva per niente con quello che mi ero immaginato. La mia routine era composta perlopiù da lavoro. Lavoravo part time in una caffetteria Costa e contemporaneamente studiavo musica in università. L’unico momento di svago possibile mi era concesso quando raggiungevo il bar e bevevo un bel sidro, magari guardando qualche live di artisti emergenti, come appunto facevo talvolta al Barfly. I Coldplay, una delle mie band preferite, sono molto presenti in questo brano, ed è proprio al Barfly che hanno mosso i primi passi e con i primi live.
“Non sono cool” è un manifesto prima ancora che una canzone. Il titolo è abbastanza esplicativo e parla di noi: fin da quando esistiamo come band ci siamo sempre sentiti degli outsider, non tanto per il pubblico quanto per gli addetti ai lavori. Venendo dalla provincia, suonando un genere di musica, soprattutto agli inizi, non particolarmente convenzionale e mostrandoci senza troppi fronzoli, abbiamo sempre subito un’etichetta, che è quella di personaggi “non cool”.
Abbiamo imparato a riderne, ma, inizialmente, era un problema. In qualche modo ci additavano come un progetto non in linea con i tempi, non alla moda. Era un po’ come se ci fosse un veto riguardo al parlare di noi e al parlare dei nostri concerti. Dall’altro lato, però, continuavamo a constatare che il nostro pubblico stava crescendo di concerto in concerto. E abbiamo capito una cosa fondamentale: se vuoi fare musica in Italia, la “coolness” ti può rendere figo per gli addetti ai lavori, ma spesso non ti rende interessante per il tuo pubblico. Quindi, in qualche modo, chiusa una porta, si può aprire un portone. È uno dei pezzi più rock e potenti dell’album, perché c’era l’esigenza di potenza e immediatezza, per fare arrivare bene il messaggio.
“Cena di classe” è l’ultima canzone di “Fake News” ed è anche una delle più vere. Trattandosi di una storia raccontata, attinge dall’immaginario più cantautorale della musica italiana e dal folk. È la storia di una cena tra vecchi compagni di classe che raccontano i cambiamenti avvenuti nella loro vita dopo la maturità. Nessuno parla apertamente dei propri problemi e dei propri disagi esistenziali, è come se si volesse dissimulare, far finta che tutto stia procedendo per il meglio, come una commedia all’italiana. Questa canzone nasce quasi come un film, in cui tutti celano le proprie debolezze dietro a muri di ipocrisia. Proprio per questo si collega bene al tema di “Fake News”: tante volte ci concentriamo molto sulla facciata, sul titolone, sul clickbait, e non abbastanza sulla logica e sulla verità.
Le ultime parole della canzone sono una frase importante: “ci si vede tra un anno”. Ora, non sappiamo se sarà un anno o più, però è una promessa vera ed effettiva che facciamo a tutti come band. Quest’estate si è molto dibattuto riguardo a un nostro ipotetico scioglimento e quindi, in un album che ironizza su questa cosa e su molte altre, volevamo fare una promessa solenne e veritiera: può anche cadere il mondo ma noi siamo sempre qua. Non ci sciogliamo e ci vediamo presto.