Achille Lauro – “Comuni mortali”: il canto fragile di un figlio del pop

Achille Lauro, un tempo creatura sfuggente del panorama musicale italiano, sembra oggi aver completato un processo di metamorfosi: da provocatore irriverente a cantautore dall’anima popolare. Con Comuni mortali, l’artista romano si spoglia – questa volta non in senso scenico – di maschere e travestimenti per raccontare, in tono malinconico e confidenziale, le sue radici, i legami familiari, i ricordi di strada, e una Roma tanto idealizzata quanto imperfetta.
Questo nuovo album non urla più, non scandalizza, non cerca il colpo di teatro. Al contrario, sembra voler sussurrare qualcosa all’orecchio di chi ascolta. È un disco fatto di dediche intime e confessioni senza filtro, un percorso sentimentale che affonda le radici in una memoria personale e collettiva. Cristina, omaggio toccante alla madre, è l’esempio più diretto di questa nuova vena emotiva: Lauro si mostra vulnerabile, riconoscente, quasi disarmato, cantando con la semplicità disarmante di chi ha finalmente deciso di fare pace con il proprio passato.
Le dodici tracce che compongono l’album si muovono tra pop d’autore, accenni funky, ballad dal sapore rétro e momenti di rap che riportano alle origini. Brani come amoR e Perdutamente pescano a piene mani da una tradizione melodica italiana che va da Venditti a Tozzi, passando per la cantabilità più dolce e un po’ stanca degli anni ’80. C’è anche spazio per la teatralità sottile di pezzi come Walk of fame o Fiori di papavero, che sembrano giocare con una nostalgia da pista da ballo.
E se Lauro oggi non sperimenta più con la furia caleidoscopica di un tempo, resta comunque fedele alla sua natura di artista camaleontico: non si tratta di un’adesione definitiva a un’estetica, ma piuttosto della scelta di raccontarsi con un linguaggio più essenziale, più diretto, forse meno originale ma più umano.
Barabba III, che chiude il disco, è un epilogo commovente e riflessivo: un addio sussurrato a un amico perduto e, insieme, a un pezzo di sé stesso. L’ultimo atto di una trilogia che attraversa dieci anni di carriera, ma anche l’inizio simbolico di un nuovo capitolo. Lauro non si pone più come simbolo di rottura, ma come voce empatica di una generazione incerta, sospesa tra sogni infranti e desideri di redenzione.
Comuni mortali non è un album rivoluzionario, eppure ha qualcosa di sorprendentemente autentico: l’abbandono del bisogno di stupire. È un lavoro che non urla ma respira, che non cerca la provocazione ma l’identificazione. Lauro, oggi, non vuole essere un’icona: vuole essere uno di noi. E forse, proprio per questo, ha trovato il modo più vero di distinguersi.